EUTHYMIA – Something in the way
Dopo la pubblicazione di un EP (“Øeos”, 2022) e 2 singoli (la cover di “Angel” dei Massive Attack del 2023 e “My Cyrenaic Cloak”, del 2024), la partecipazione a importanti festival quali il Rock Castle Festival e l’Alterova Festival in Repubblica Ceca, un club tour che li ha portati in luoghi iconici come il Live Club e il New Force in Germania, tornano gli Euthymia con un nuovo videoclip: la cover del classico dei Nirvana, “Something in the way”, rivisitata in chiave doom metal/shoegaze.
«Nel rivisitare “Something in the Way” abbiamo voluto spingerci ancora più a fondo nella malinconia primordiale del brano, costruendo un’atmosfera capace di amplificare il senso di isolamento e disillusione che pervadeva l’originale. Il testo, nato dalla visione tormentata di Kurt Cobain, è stato reinterpretato alla luce di una sensibilità filosofica e musicale più vicina al doom e allo shoegaze, rendendolo una riflessione ancora più universale e cosmica sulla condizione umana».
Per Cobain, “Something in the Way” rappresentava una metafora tanto intima quanto devastante: l’inadeguatezza, il senso di esclusione e il tentativo di trovare un rifugio in un mondo indifferente. Gli Euthymia hanno ripreso questa prospettiva e l’hanno calata in un contesto filosofico più ampio, ispirandosi al pensiero di Nietzsche, per riflettere sull’eterno conflitto tra l’uomo e il destino, tra il desiderio di significato e la consapevolezza della sua assenza.
In questa versione, la “cosa sul cammino” non è più solo un ostacolo esterno o interno, ma diventa il simbolo di una verità insopportabile, quella che ogni individuo incontra di fronte all’inesorabile scorrere del tempo e al peso dell’esistenza. La coperta sotto il ponte – immagine iconica del testo – perde i connotati autobiografici per diventare una metafora del fragile conforto che cerchiamo contro il freddo dell’indifferenza cosmica.
Gli Euthymia hanno scelto di ampliare la narrazione emotiva del brano attraverso un paesaggio sonoro costruito su droni lenti e vibranti, tipici del doom classico alla sunn O))), intrecciati con le delicate atmosfere shoegaze di band come Alcest e The Cure. Le chitarre creano un muro sonoro che si muove tra la pesantezza e la leggerezza, simboleggiando il continuo alternarsi tra speranza e resa.
Nel loro adattamento, la canzone non è più solo una cronaca di isolamento, ma una meditazione sulla malinconia universale: un sentimento che, pur devastante, è anche un elemento fondamentale per comprendere l’essenza umana. La ripetizione ipnotica delle melodie e delle parole guida l’ascoltatore verso un abisso, ma è proprio nell’abisso che si trova, paradossalmente, una forma di pace.
L’obiettivo degli Euthymia con questa cover è quello di creare un’esperienza musicale che non solo renda omaggio all’eredità di Cobain, ma che amplifichi il suo messaggio, portandolo in una nuova dimensione fatta di suoni, idee e sentimenti ancora più profondi e universali.
Il video che accompagna la reinterpretazione di “Something in the Way” degli Euthymia è un’immersione viscerale in un mondo sull’orlo del collasso, un ritratto pre-apocalittico di solitudine e alienazioneche rispecchia perfettamente l’essenza nichilistica del brano.
L’intera storia si svolge in un bunker abbandonato, uno spazio angusto e opprimente che diventa simbolo della condizione umana: una prigione autoimposta, un luogo di rifugio che si trasforma lentamente in una tomba. Il protagonista, il cui volto resta spesso avvolto nell’ombra e a cui non viene mai dato un nome, è l’incarnazione dell’uomo contemporaneo: isolato, in guerra con un mondo che ormai ha cessato di esistere, ma soprattutto estraneo persino a sé stesso.
Nel bunker, il tempo si è fermato. Gli oggetti sparsi – vecchie fotografie, candele consumate, strumenti inutili – sono i resti di una civiltà che non c’è più. All’esterno, non vediamo mai cosa è accaduto: il mondo è stato lasciato alla nostra immaginazione, suggerito solo da suoni lontani, luci intermittenti e una cappa di polvere che filtra attraverso le crepe. L’apocalisse non ha bisogno di essere mostrata: il suo peso grava sull’aria stessa.
La narrazione del video ruota attorno a un’unica certezza: è l’ora designata per la fine. Non ci sono possibilità di fuga, non c’è redenzione o rinascita. Questo è un momento di accettazione, non di speranza. Il protagonista non combatte contro il destino, ma lo osserva avvicinarsi, rassegnato e consapevole. La tensione cresce non per un desiderio di ribellione, ma per l’impossibilità di fermare ciò che è inevitabile.
Le immagini trasmettono una profonda claustrofobia emotiva, con inquadrature strette e movimenti di camera volutamente lenti, che seguono il protagonista mentre si aggira tra i corridoi del bunker. Ogni gesto – accendere una candela, fissare il soffitto, passare la mano su una parete – è carico di un’inquietudine silenziosa, come se persino le azioni quotidiane fossero prive di senso davanti all’imminente dissoluzione.
Il bunker diventa una metafora potente: è la rappresentazione tangibile dell’isolamento dell’individuo, ma anche un luogo in cui tutte le illusioni umane – progresso, immortalità, significato – si disgregano. Non c’è un messaggio di speranza nel video, nessun segno che dalle ceneri di questa fine nascerà qualcosa di nuovo. È una visione profondamente nichilistica, dove il senso della vita non viene cercato, ma semplicemente accettato nella sua assenza.
L’immobilità del protagonista davanti alla fine è un chiaro richiamo alla filosofia di Nietzsche, che descrive l’uomo come un essere capace di affrontare il “terrore del nulla” solo abbandonando ogni illusione consolatoria. Qui non ci sono promesse divine, redenzioni o cicli che ricominciano. La fine è totale e definitiva.
Non c’è dunque spazio per la redenzione o per la speranza di una nuova alba: è la celebrazione di una fine pura, priva di consolazione. La “cosa sul cammino”, in questa versione, non è solo un ostacolo personale, ma diventa il peso inesorabile dell’esistenza stessa.
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