Album della settimana – LINDA SUTTI – Wild skies

 

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Linda Sutti ha alle spalle una signora carriera fatta di concerti, album (già due) e una “pericolosa” frequentazione con la musica del diavolo, il blues, da sempre al suo fianco fin dagli esordi con i Blues Trigger.
E di blues ce n’è tanto anche in questa prima esperienza ad alto livello, con la tedesca Cable Car Records. Ma è un blues perfettamente amalgamato con la classe e la raffinatezza di arrangiamenti superbi curati da Heinrik Freischlader, “anima gemella” artistica in “Wild skies” e di uno spessore compositivo che va ben al di là della classica concezione che si ha del genere.
Siamo dalla parti di Suzanne Vega, Norah Jones, Fiona Apple, Rickie Lee Jones, Michelle Shocked, Ani Di Franco ma con un piglio personale, una voce forte e sicura (e un inglese impeccabile !) e influenze che si addentrano in pop, nel 70s’ folk (“For the thrill”), rock, blues rock (l’impetuosa, cattiva, “Down on the road”), perfino reggae nell’introduttiva, splendida “Hurry”.
Un gioiello di album, prezioso, luccicante da tenere tra le cose migliori del 2014.

Per trovare visibilità hai dovuto emigrare in Germania con la tua musica.
E’ così difficile fare musica in Italia ? E quali differenze hai trovato forte del tuo recente tour in Francia e Germania ?

Per amore di esattezza, non sono dovuta emigrare, bensì ho avuto la fortuna che qualcuno temporaneamente mi venisse a prendere!
E che quel qualcuno fosse Henrik Freischlader, produttore e proprietario della Cable Car Records, un’etichetta che lavora ancora nello stile delle label americane degli anni ’50. L’artista, la sua natura artistica e personale, sono al centro della produzione, e tutto viene fatto perché ci siano le condizioni adatte all’artista per esprimersi al meglio in fase di registrazione. Sono sicura che etichette con questo spirito esistano anche in Italia. Fare musica è difficile ovunque oggigiorno, dal mio punto di vista. In giro ci sono tantissimi musicisti, alcuni dei quali sono davvero eccezionali, è difficile distinguersi.
Credo che il modo migliore per farlo sia puntare sull’onestà del lavoro, sull’amore e la dedizione totale per quello che si fa, semplicemente.
Non ho gli elementi necessari per parlare delle differenze tra Germania e Italia in fase di produzione perché il mio album precedente (“Winter in my Room”) è stato realizzato in condizioni speciali, molto diverse, molto più “familiari”, se vogliamo. Anche per quanto riguarda la dimensione live non riesco a trovare delle differenze a livello “nazionale”, ma penso che siano legate ai tipi di locali in cui ho suonato durante il supporting tour a Freischlader, club storici e venue molto più grandi rispetto ai piccoli pub a cui ero abituata, posti dove la gente va principalmente per ascoltare musica.
E’ normale, in quelle condizioni, trovare un pubblico più attento. Generalmente però, all’estero trovo un maggiore interesse per la musica come espressione artistica, le persone sembrano avere una maggiore consapevolezza di quello che ascoltano e di quello che vogliono ascoltare.

C’è uno stupendo lavoro di arrangiamento e di estrema cura in “Wild skies”.
I brani sono nati chitarra acustica e voce e sono stati poi “vestiti” dal tuo produttore Henrik Freischlader o avevi già in origine chiaro in mente il risultato finale ?

I brani che io ed Henrik ci siamo scambiati durante tutto l’anno che sta per chiudersi erano “in pigiama”: appena appena svegli, solo chitarra acustica e voce. Henrik ha scelto i vestiti giusti perché uscissero dalla mia cameretta, ma tenendo sempre in considerazione i colori, i tagli e le stoffe in cui mi sento più a mio agio.
Affidarsi alla sua sensibilità è stato naturale per me fin da subito.
L’apporto di Martin Meinschaefer, poi, è stato preziosissimo. L’intesa che si è creata in studio ci ha permesso di lavorare con naturalezza nel momento, sviluppando o cassando quelle idee che i primi demo delle canzoni ci avevano suggerito.

Tu nasci con il blues, quello più puro e classico.
Che ritroviamo in abbondanza anche in “Wild skies” ma in forma più diluita e spalmata tra tante altre influenze.
E’ una scelta ?

No, è lo specchio della evoluzione che il mio modo di scrivere ha avuto dai Blues Trigger in poi. Per la band scrivevo principalmente dei blues, ma ogni tanto qualche canzone era decisamente troppo folk o troppo pop, così la tenevo in disparte. Qualche tempo dopo, quando il loro numero è aumentato e la band si è sciolta, le ho riunite ed è nato “Winter in my Room”.
“Wild Skies” riprende alcuni brani di quell’album e propone alcuni di quelli più o meno recenti che facevano capolino dai miei quaderni.

Essere cresciuta, anche artisticamente, in una città di provincia credi abbia influenzato la tua scrittura ? E che in qualche modo il nostro Po abbia fatto le veci del Mississippi nel rivolgersi al blues ?

Credo che, più che il Po – che rimane un elemento imprescindibile nell’immaginario degli artisti emiliani – sia stata la scena musicale piacentina a influenzarmi, ma non tanto nella scrittura, quanto nel modo di vivere la musica, ovvero un elemento che non può mancare nella quotidianità, soprattutto come ascoltatrice.
Nonostante molto spesso (forse troppo spesso) ci si lamenti dell’offerta culturale locale, trovo che Piacenza e i suoi musicisti (sono davvero tanti e davvero molto validi, nella loro speciale eterogeneità) mi abbiano fatta sentire a mio agio in una piccola comunità che, più di condividere una passione, creava e crea novità, si mette in gioco, è curiosa di “vedere chi suona stasera”.
Credo che non sia facile trovare questo spirito in una città di provincia, per questo mi considero molto fortunata di essere nata e cresciuta a Piacenza.

Secondo te un linguaggio “arcaico”, antico, come il blues è ancora attuale ?

Assolutamente sì.
Anche al di là del mio gusto personale, trovo che esistano poche espressioni musicali così potenti come la progressione armonica più semplice di un blues e una sillaba appena mormorata sopra.
Non so spiegare come, per me è uno dei più grandi misteri, come facciano quei pochi elementi a dare voce in modo così preciso e allo stesso tempo universale alle molte sfumature dei sentimenti umani, sia che provengano dalla gioia più pura, che dalla estrema disperazione. Questa potenza essenziale si può sentire ora come nel blues delle origini.

Con la (propria) musica un artista italiano ci può campare?

Sì. Io nella domanda utilizzerei senza esitazioni il verbo “vivere” al posto di “campare”. Un artista – di qualsiasi nazionalità – se esprime la sua arte con onestà e ha scelto con consapevolezza di farne la fonte principale dei suoi guadagni, può dire con orgoglio di “vivere”, perché nella professione della propria arte egli ha riconosciuto se stesso e il proprio posto nel mondo. Questo per me vale per qualsiasi professione scelta nonostante le difficoltà che essa comporta, soprattutto economiche, e non solo per i musicisti o gli artisti in generale. Nessuno dovrebbe, volendo “vivere”, lasciarsi “campare”.
Quindi, se posso permettermi di riformulare la domanda, può un artista riuscire a guadagnare il minimo indispensabile per vivere una vita dignitosa? Sì, alcuni li ho conosciuti di persona; servono coraggio, determinazione, spirito di adattamento, impegno, volontà, abnegazione, in qualsiasi parte del mondo.

Pensi che come ormai da tempo continuamente pronosticato il supporto fisico (CD, vinile etc) per l’ascolto sia destinato ad essere sostituito dalla musica “liquida” (file, mp3 etc) ?

La fruizione di un mp3, è banale dirlo, è diversa da quella di un vinile, è l’esperienza che la circonda, “il rituale”, ad essere profondamente differente, non c’è nemmeno bisogno di fare esempi.
Pensando a quanto il marketing sia orientato alla vendita dell’”esperienza” di ciò che viene venduto più di ciò che viene venduto, mi sento positiva: i vari formati conviveranno ancora per molto tempo, fino a quando l’ultimo uomo sulla Terra non avrà dimenticato completamente come si fa a mettere un disco su un piatto, a posizionare il braccio e a far scendere la puntina.

La band ideale con cui ti piacerebbe suonare (valgono anche i defunti…)

Ian Paice o Steve Copeland alla batteria, Ares Tavolazzi o Henrik Freischlader al basso, Rhoda Scott alle tastiere ed Henrik Freischlader alla chitarra elettrica.

L’inevitabile lista di dischi da portare sull’isola deserta

Ne ho tre, sono troppi? “Tapestry”, Carole King; “Harvest”, Neil Young, “West Side Soul”, Magic Sam. Ma solo con il primo sarei contenta.

Antonio Bacciocchi

Scrittore, musicista, blogger. Ha militato come batterista in una ventina di gruppi (tra cui Not Moving, Link Quartet, Lilith), incidendo una cinquantina di dischi e suonando in tutta Italia, Europa e USA e aprendo per Clash, Iggy and the Stooges, Johnny Thunders, Manu Chao etc. Ha scritto una decina di libri tra cui "Uscito vivo dagli anni 80", "Mod Generations", "Paul Weller, L’uomo cangiante", "Rock n Goal", "Rock n Spor"t, Gil Scott-Heron Il Bob Dylan Nero" e "Ray Charles- Il genio senza tempo". Collabora con i mensili “Classic Rock”, "Vinile" e i quotidiani “Il Manifesto” e “Libertà”. E' tra i giurati del Premio Tenco e del Rockol Awards. Da sedici anni aggiorna quotidianamente il suo blog www.tonyface.blogspot.it dove parla di musica, cinema, culture varie, sport e con cui ha vinto il Premio Mei Musicletter del 2016 come miglior blog italiano. Collabora con Radiocoop dal 2003.

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