Improvvisando Buscaglione fra fumo e kebab
Solo ieri su queste pagine Antonio Bacciocchi scriveva di un progetto torinese nato per raccogliere fondi per il “Premio Buscaglione – Sotto il Cielo di Fred” e proprio ieri davanti alla chiesa vicino casa tre signori, diciamo sulla settantina, canticchiavano benissimo, tra improvvisazione e divertimento, alcuni brani del Fred nostrano, sbocconcellando pezzi di pizza, uno di loro un kebab.
Capita così a Torino, capita che in una parabola assurda fra “Teresa non sparare” e un kebab, si delinei la meraviglia che ieri aveva volti e voci di Paolo, Aldo e Sergio, musicisti improvvisati davanti alla chiesa di San Massimo.
Lusingati di avere un po’ di pubblico (io), per niente discreto (ciao, che fate? Chi siete?), forse hanno esagerato un po’, si sono lanciati in qualche performance un po’ piaciona, ma poi è venuto il bello, il momento dei “ma lo sai”?
E allora, ma lo sai che Buscaglione era iscritto qui al conservatorio? Lo sai che studiava violino? Lo sai che invece preferiva il sax? Lo sai che lo chiamavano Nando, in realtà? Lo sai che lui era Americano dentro? Questa cosa dell’essere Americano dentro la dice Sergio e io trovo che sia una definizione di una tenerezza infinita, un modo per riappropriarsi di un’evocatività tipica di un’epoca in cui “fare l’Americano” era sinonimo di originalità, ma esserlo dentro, diventava una dimensione dell’anima.
E com’è essere Americani dentro? Me lo chiedo e lo chiedo a questi tre che un po’ mi ricordano l’orchestrina jazz degli Aristogatti. Mi rispondono masticando e ridendo, come se si aspettassero questa domanda ingenua:”Sei giovane, voi giovani non avete più il senso della spettacolarità che in quegli anni rappresentava l’America, il posto dove tutto poteva succedere”. Raccolgo il “sei giovane”, non gli dico che poi, proprio così giovane non sono e che, forse, posso ancora cogliere qualcosa di quella sensazione, perché poi, dai, l’America, intesa come Stati Uniti, piace un bel po’ anche a me. Mi viene in mente Raymond Chandler e il suo “Grande Sonno” e ancor di più il film con Humphery Bogart (ma anche James Ellroy di “Prega detective”), mi viene in mente la faccia di Fred Buscaglione, un po’ Clarke Gable, un po’ cucciolo nel suo voler trasportare qui, ma proprio qui a Torino, un’atmosfera che prevedeva, come ha già detto qualcuno, gangster, whisky, pistole, cazzotti, sigarette, donne bellissime e fatali. Come quella donna bellissima e fatale che divenne il suo grande amore, Fatima Ben Embarek, acrobata circense di origine marocchina, che mamma mia, manco a pensarci. Un altro “lo sai?” che fa fare ai tre smorfiette maliziose da ragazzi d’antan.
Ma Fred Buscaglione è e rimane la sua musica, assolutamente fuori tempo, portata in giro per un’Italia abituata al melodico sdolcinato, quasi una forma di educazione all’ascolto, che aveva nelle sale da ballo fumose la sua aula, in cattedra un Torinese specialissimo, che ha finito la sua corsa su una macchina rosa.
Generoso Fred, che ha regalato stile e musica che oggi possiamo ri-ascoltare nelle interpretazioni del tributo di cui Antonio parla (grandi i Perturbazione!), ma anche passando davanti a una chiesa, fra una pizza e un kebab.
Ah no?
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