L’abito dei dischi (1/3)
Si racconta che in un’afosa mattina di giugno del 1939 Alexander Steinweiss, impiegato della Columbia Records, propose alla casa discografica di rivoluzionare il packaging dei vecchi dischi in gommalacca a 78 giri. Da quel momento si dice definitivamente basta agli anonimi rivestimenti di carta che riportavano solo i titoli, scritti con un font color argento: per Steinweiss le copertine dovevano diventare opere d’arte.
Un’intuizione non da poco! La cultura pop è stata scandita da storiche cover alcune delle quali hanno rappresentato epoche e fenomeni: i colori strillati sui dischi dei quattro baronetti inglesi, per esempio, sono decisamente una delle migliori interpretazioni degli anni psichedelici.
I Joy Division sarebbero stati i Joy Division senza le stupende grafiche di Peter Saville che, amico dei musicisti di Salford, seppe tradurne gli umori in rappresentazioni visive?
Di fronte alla gigantesca centrale elettrica di Battersea, lungo il Tamigi, è impossibile non pensare a Animals dei Pink Floyd. O ancora, chi si è dimenticato l’ugola dell’urlo esasperato sulla copertina dei King Crimson?
Uno stratagemma per aumentare le vendite, si è trasformato in contaminazione fra arti, dove l’arte visiva entra in contatto con quella musicale, venendone sicuramente influenzata. Grazie a un vivace impiegato discografico abbiamo personaggi come Julien Opie, oggi tra gli artisti importanti della scena internazionale, che deve il suo successo a una copertina dei Blur e alla collaborazione grafica con gli U2.
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