Robert Gordon – Muddy Waters. Dal Mississippi Delta al Blues di Chicago
Per non inoltrarci in lunghe spiegazioni, lasciamo immediatamente la parola a qualcuno che non ha bisogno di presentazioni e che, per usare un eufemismo, se ne intende.
Keith Richards firma l’introduzione del libro di Peter Gordon, dedicato alla vita di Muddy Waters, “Muddy Waters. Dal Mississippi Delta al Blues di Chicago”, tradotto (benissimo) da Claudio Mapelli (credo sia importante citare coloro che riescono a restiruirci bene la magia della lingua originale) e stampato da Shake Edizioni:
“E’ stato Mick Jagger a farmi ascoltare Muddy Waters. Un giorno, giovanissimi, siamo finiti a casa sua e mi ha fatto sentire Muddy. Allora ho esclamato “Wow! Ancora”.
E dieci ore dopo ero ancora lì che dicevo: “Dai, ancora”. Ascoltando “Still a fool” e “Hoochie Coochie Man” ho subito pensato che quella era la musica più potente che avessi mai sentito.
La più espressiva.
In un certo senso è stato il nostro padrino, il nostro primo obiettivo è stato che il mondo conoscesse Muddy Waters e quelli come lui.
Il nostro complessino aveva finalmente trovato un ingaggio per una serata e noi avevamo speso i nostri ultimi centesimi per un annuncio su una rivista.
Quando abbiamo telefonato per comunicare il luogo del concerto ci hanno chiesto: “Va bene, come vi chiamate?” Sul pavimento c’era “The Best of Muddy Waters” e sulla prima facciata c’era il brano “Rollin Stone”. Così ci siamo chiamati Rolling Stones”.
Basterebbe questo per non aver alcun dubbio e, se ancora non lo avessimo fatto nella nostra (a questo punto direi inutile) vita musicale, ci dovremmo precipitare ad ascoltarce subito un disco di Muddy Waters.
E’ blues, quella musica nata da lontano, molto lontano, un luogo irraggiungibile, che si chiama anima.
Le radici in Africa, più o meno nella zona subsahariana, poi estirpate con la forza, picchiate, brutalizzate, schiavizzate e ripiantate nel nuovo mondo, in America, dove sono rigermogliate con la loro disperazione.
La schiavitù è stata un’esperienza apocalittica, i ponti sono stati tagliati per sempre e non c’é stata alcuna possibilità di recupero.
Non c’è più stato un prima, un termine di paragone, la possibilità di confrontarsi con un’idea di normalità.
Il blues è nato così, dall’esigenza di ricostruire le fondamenta di una nuova identità.
“Il blues è un’arte mirabile ma le condizioni che l’hanno creata erano strazianti. C’é una sola verità riguardante il blues che è rimasta praticamente immutata nei decenni ed è il fatto che tuttora è considerata una musica che affonda le sue radici nella povertà. Guai al musicista blues di successo. Se ha un po’ di soldi in banca la sua autenticità verrà messa in discussione.
I fan chiedono: “Dacci la povertà”.
Il blues, nato dalla frustrazione della libertà, traeva origine dalle privazioni e divenne né più né meno uno strumento di sopravvivenza. Come la musica gospel, il blues significava liberazione, forniva conforto. Il blues riguarda il momento presente e ti impone di dimenticare le tribolazioni passate e i guai futuri, di penetrare in quella canzone e in quella sensazione adesso, di abbandonarti completamente ad essa.
Il gospel canta il paradiso, le visioni celestiali che ti attendono dopo la morte. Il cantante blues non è interessato al paradiso e non ha grandi speranze nella vita terrena” (Robert Gordon).
McKinley Morganfield nasce nel 1913 nello stato del Mississippi ma ben presto viene soprannominato dalla nonna Muddy Waters (acque fangose) per la sua abitudine di sguazzare nel fango.
Padre contadino ma anche valente musicista, nove fratelli, la madre che muore quando lui aveva tre anni, viene cresciuto dalla nonna a Clarksdale.
Muddy suona l’armonica e la chitarra, raccogliendo qualche centesimo nei juke joints, baracche che fungono da locali per i neri, dove si beve, si suona e si gioca d’azzardo, ma il lavoro principale sono le canoniche, durissime, infinite ore a raccogliere cotone.
Fin da piccolo nei campi, prima a portare l’acqua ai lavoratori, poi in prima fila con gli altri più vecchi a riempire casse di cotone.
Muddy elabora un suo stile, come ogni vero bluesman, uscendo dal classico standard che molti ritengono sempre uguale. Inserendo la propria personalità, un timbro diverso, una successione di accordi e linee melodiche che non hanno eguali. Viene scoperto nel 1942 nientemeno da Alan Lomax, ricercatore musicale e antropologo che girò in lungo e in largo gli Stati Uniti registrando brani blues sconosciuti, preservando una cultura che sarebbe andata altrimenti persa. Ma per molti anni le sue registrazioni rimarranno in un cassetto. Muddy Waters lascia il Mississippi e si trasferisce a Chicago, la città blues per eccellenza. Anche qui lavora duramente di giorno come autista, per poter dedicare la sera e la notte alla sua musica. Elabora un nuovo sound, in cui il blues rurale e acustico delle origini acquista elettricità, ritmo, groove e diventa la base per quello che conosceremo meglio come rock ‘n’ roll.
Assume il ruolo di leader della nuova scena blues, incide i suoi classici più conosciuti, ripresi da un’infinità di band dagli anni Sessanta in poi (Rolling Stones, come abbiamo visto, in testa) come “I’am a man”, “Hoochie Coochie man”, “I just wanna make love to you”, “I’m ready”. La fama cresce, diventa una star, acclamato dalla scena rock che lo venera (giustamente) come un grande ispiratore.
Devia verso un blues contaminato da rock e influenze quasi hard, suscitando scandalo tra i puristi.
Ma l’evidenza che i dischi più vicini allo spirito originale vendono poco mentre quelli più “alla moda” arrivano in classifica, lo inducono a una scelta ben precisa.
In “Electric Mud” omaggia i suoi discepoli Stones con una versione stravolta della loro “Let’s spend the night together”. Nel 1982 in un piccolo club di Chicago, il “Checkerboard Lounge” si consuma uno dei momenti epici della storia del rock (evidentemente costruito a tavolino ma ugualmente suggestivo).
Muddy Waters suona per pochi astanti, quando all’improvviso arrivano Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood (oltre ad altri due Stones, Ian Stewart e Bobby Keys e il solito stuolo di amiche e amici) e ad uno ad uno salgono sul palco a suonare.
Pura estasi, il cerchio si chiude.
Tra il 1972 e il 1980 infila una serie di Grammy Awards per il miglior album “etnico/folk”. Ovviamente i suoi album elettrici sono piccoli gioielli di rara intensità, a scapito di presunti “purismi”, artisticamente ad altissimi livelli, pur se non di rado “di maniera” e ripetitivi.
Ma sono testimonianze, talvolta denigrate e bistrattate al momento dell’uscita, di primaria importanza.
Muddy Waters non si è mai risparmiato nella sua vita, in cui aveva tranquillamente abusato del suo fisico, non disdegnando mai la compagnia di belle donne (anche non necessariamente avvenenti) e di alcolici, più o meno super.
Ma a sconfiggerlo, a settantanni, fu un arresto cardiaco, anche se il suo fisico era da un po’ di tempo minato da un cancro ai polmoni. Lasciò una grande eredità artistica, dagli Stones ai Led Zeppelin a Eric Clapton ma anche in una miriade di nuovi gruppi che dalla sua lezione hanno tratto, talvolta incosapevolmente spunto. Come dice sempre Keith Richards:
“La musica del ventesimo secolo è fondata sul blues. Non ci sarebbe il jazz o qualsiasi altra forma di musica moderna senza il blues. E quindi ogni canzone pop, per quanto trita e sciocca, ha in sé un pizzico di blues, anche se i suoi stessi autori ne sono inconsapevoli o hanno cercato di eliminarne ogni traccia”.
Conclude Robert Gordon nel sopracitato libro:
“Dopo la sua morte è nata ed è maturata una generazione: la prova della duratura validità della musica di Muddy è il potere che continua ad esercitare su chi sta sperimentando un mondo che lui non ha mai conosciuto.
La sua eredità è più potente che mai.
La sua cultura, la cultura del blues, ha avuto un impatto sul ventesimo secolo che probabilmente non è secondo a nessun altro”
Robert Gordon
Muddy Waters. Dal Mississippi Delta al Blues di Chicago
Shake Edizioni
19 euro
448 pagine
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