Svegliaci coniglio bianco!
Questa giornata di sole ricarica un po’ di energie disperse, scalda, mette il buon umore. E’ un risveglio intenso quello di oggi e a girare per la testa è un ritmo in crescendo, quasi un bolero che, piano piano, si fa strada e assume i contorni di “White Rabbit”, canzone che amo molto, che Grace Slick scrisse ai tempi dei The Great Society e che portò in dote ai Jefferson Airplaine, insieme a “Somebody to Love”.
Sul perché certi motivi si piantino nel cervello mi interrogo da sempre; oggi tocca al coniglio bianco saltellarmi in testa, riportando alla memoria anche una scena del film Platoon in cui il brano girava ipnotico nell’accampamento americano, con uno stellare Willem Dafoe in modalità “strafatto”. Eccolo lì, il Vietnam con tutto il suo carico di contraddizioni e il fermento culturale/sociale che si portava dietro, con il suo patrimonio inestimabile di musica, applicabile indifferentemente sia alle scene del quotidiano di chi andava a “difendere la libertà e combattere il comunismo”, sia di chi restava a casa ad aspettare, sia di chi si opponeva. Quella del Vietnam è l’ultima guerra in cui fu utilizzato il servizio militare obbligatorio, l’ultima in cui giovanottoni del bel sogno andavano a farsi macellare in nome di un patriottismo spinto, di un’americanità da difendere in maniera indefessa, l’ultima che si vide così fortemente contestata, grazie a una presa di coscienza diversa, che per la prima volta mise gli Yankees nelle condizioni di sentirsi il re nudo. L’amministrazione Johnson, la più nuda, becera e sciatta.
Il viaggio in cui conduce Grace Slick è un turbine di immagini che emergono, forse, da un trip da LSD (naaaaa dai scontato!), forse da una metafora chiara e lucida di chi usa le immagini rassicuranti di The Adventures of Alice in Wonderland, un classico della letteratura per ragazzi (ma non solo), per raccontare l’esistente. Oppure è una pastoia fra le due cose, in cui si rimane invischiati tra i molti episodi tratti da Lewis Carrol, trasfigurati però da un trip acido. Sotto, sopra, davanti, in mezzo la voce che scuote il plesso solare e diventa il grido di battaglia della controcultura del tempo, che tanto fece contro la guerra. Pia illusione dei tempi che furono, l’oggi di oggi avrebbe bisogno di tanti conigli bianchi.
Ecco che il sole illumina i connotati di questo martellare incessante: ci risiamo, siamo di nuovo tutti “il ghiro” che non ricorda niente (leggetevelo il libro, per favore), ma che potrebbe se solo trovasse la volontà di pensare, di imparare. C’è di nuovo un’intera società assopita (mica solo quella americana che assisteva indifferente a quella guerra tremenda) cui dedicare una ballata, cui dire “svegliati!”, cui sbattere in faccia la futilità di ogni impresa militare, cui indicare modelli alternativi e virtuosi di stare al mondo.
“White Rabbit” è una canzone di libertà scritta tanti anni fa per dare uno schiaffo alla cultura patriarcale che ammorbava, i Jefferson Airplane sono i mastri di chiave alla porta di un modo in cui l’arte e la conoscenza diventano colonne, non alternative. E un’opera d’arte è la fotografia che oggi invade i social, quella scattata dalla fotoreporter palestinese Nadia Abu Shaban in Siria: occhi terrorizzati, musino che accenna il pianto, mani alzate in segno di resa di una bambina di quattro anni. Occhi che scambiano la macchina fotografica per un’arma. A quattro anni lei si arrende. Noi tentiamo almeno un risveglio delle coscienze, la sveglia è qui, una riga più in basso.
Remember what the dormouse said:
“Feed your head, feed your head”
Commenti recenti