Hardcore punk
di Antonio Bacciocchi
Quando nel 1977 il punk esplose, mediaticamente e artisticamente, erano davvero in pochi a immaginare che oltre quaranta anni dopo sarebbe stato ancora ricordato, seguito e rimasto vivo e vegeto, con una presenza nella musica e nel costume, magari di nicchia, ma ampiamente consolidata.
E se già agli esordi le sue emanazioni e contaminazioni erano molteplici – a partire da quella che verrà ben presto definita New Wave, fino alle ibridazioni con pop, reggae, funk – era difficile prevedere che la sua più diretta filiazione sarebbe sfociata in quello che conosciamo oggi come hardcore punk.
Una forma di punk rock esasperata dalla violenza sonora e soprattutto dalla velocità di esecuzione.
Oltre a testi che sublimano il nichilismo originario del punk, si aggiungono connotati politici ancora più estremi e tematiche che fanno riferimento a realtà spesso intrise di disperazione, violenza.
Non pochi dei protagonisti originari della scena americana erano ragazzi e ragazze che vivevano di espedienti, fuggiti da famiglie disastrate, non di rado vittime di abusi di ogni tipo, anche da parte delle forze dell’ordine che, in particolare a Los Angeles, facevano pratica di repressione fisica proprio nei confronti dei giovani punk senza casa (e quindi senza alcuna possibile tutela legale). Altra particolarità che caratterizza la prima scena hardcore è la totale opposizione alle case discografiche ufficiali, a cui viene contrapposta una rigida politica di autoproduzione e di costituzione di piccole etichette autogestite che stampano dischi venduti a basso costo.
L‘hardcore punk nasce a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, soprattutto a Los Angeles e New York, per poi espandersi in numerose altre città americane, prima di approdare in un secondo tempo in Europa, dove si sviluppano scene di primaria importanza, ancora prima che in Inghilterra. L’Italia sarà un’eccellenza nell’ambito, creando un carattere sonoro molto personale e distintivo. I primi nomi a scrivere le radici del genere sono Black Flag, Dead Kennedys, Bad Brains, i canadesi DOA (a cui viene attribuito l’origine del nome, grazie al loro album “Hardcore 81” dello stesso anno).
Una peculiarità che rende originale e creativo l’hardcore punk è innanzitutto la grande perizia tecnica di molti dei musicisti delle migliori band.
Che non basano il sound solo sulla velocità e la violenza ma introducono elementi creativi anomali. Ad esempio i riff di chitarra dei Dead Kennedys sono spesso influenzati da scale arabe o da riferimenti alla surf music, i Black Flag (noti anche per dedicare alle prove ore e ore ogni giorno) inseriscono volentieri rimandi al metal e perfino al jazz, i Bad Brains arrivano dalla fusion e amano intervallare il loro furore e la velocità supersonica dei brani con avvolgenti intermezzi reggae, i Germs aprono il loro primo singolo “No God” con l’intro chitarristico di “Roundabout” del gruppo prog degli Yes, da loro amatissimi (a suonarlo Pat Smear, collaboratore dei Nirvana e che entrerà successivamente nei Foo Fighters).
Sono numerosi anche i musicisti che arrivano dal jazz.
Il filo conduttore comune è la repulsione (almeno inizialmente) per il rock classico che era invece alla base del punk che, in buona parte dei casi, rendeva più violente e aggressive le radici rhythm and blues, rock ‘n’ roll e glam delle loro influenze (vedi Clash, Ramones o Sex Pistols, ad esempio).
Anche l’estetica dei protagonisti è particolarmente distintiva. Pochi giubbotti di pelle o capelli colorati ma look semplice, minimale: magliette, calzoni larghi o corti, teste rasate ma anche capelli lunghi, nessuna concessione “glamour”, pura essenzialità.
E se la droga e gli eccessi sono comuni in molti rappresentanti della scena, si sviluppa anche una frangia cosiddetta “straight edge”, che rifiuta alcol e sostanze e abbraccia una vita salutista.
I prodromi musicali dell’hardcore li troviamo nell’esordio dei Germs, “GI”, del 1979, probabilmente il migliore album di sempre del genere o nei Middle Class ma è dal 1980 che esplode la scena, con nomi, oltre a quelli già citati, come Circle Jerks, Zero Boys, TSOL, Adolescents, a cui si uniranno ben presto centinaia di altri gruppi destinati a fare la storia, dai Bad Religion agli Husker Du, Meat Puppets, Fear, Minor Threat, Social Distortion.
Ognuno con caratteristiche personali e distintive che non di rado caratterizzano la zona di provenienza.
In Inghilterra si distinguono fin da subito Discharge e GBH mentre, come detto, l’Italia riveste un ruolo di primaria importanza.
Il nostro hardcore è serratissimo, cantato in italiano, spesso estremamente politicizzato.
Ed è diverso da quello di tutto il mondo, non ha orpelli produttivi, non è mai levigato e diventa quasi un genere a sé. Suona duro, grezzo, vero, sgangherato ma anche qui abbiamo signori musicisti (molti li ritroveremo successivamente protagonisti di primo piano della musica italiana, da Neffa al produttore Roberto Vernetti).
Nomi come Raw Power, Negazione, Indigesti, Wretched, Impact, Crash Box, Cheetah Chrome Motherfuckers tra i tanti, escono dai confini nazionali e diventano realtà di culto in Europa e America.
Ovunque si creano spazi occupati da giovani ragazzi e ragazze che prendono possesso di edifici dismessi e abbandonati e li trasformano in luoghi di aggregazione, cultura, concerti, solidarietà, eventi, presentazioni di libri, teatro.
Una folla di migliaia di giovani che assorbono un’attitudine rivoltosa, messaggi politici precisi, diretti e senza compromessi, una visione della vita e della società profondamente diverse. Saranno in tanti a trarne beneficio e a vivere successivamente meglio da un punto di vista etico e morale.
Quest’epoca si esaurisce a fine degli anni 80, anche se sono molti i gruppi musicali che ne raccolgono il testimone ma che non riescono più a riproporre la stessa urgenza, sincerità, approccio. L’hardcore punk (vedi nuovi nomi come Green Day, Blink 182, Offspring o NoFx) diventa un surrogato dell’impatto rivoluzionario originale, viene divorato dall’industria discografica e di abbigliamento, liofilizzato e servito su un piatto presentabile e appetibile. Non è una novità.
E’ anzi la regola che ciò che nasce dal basso sia semplicemente un “laboratorio” gratuito per la potenziale successiva massificazione, in base a quanto queste nuove tendenze vendano e siano ben recepite dai futuri consumatori.
Fortunatamente nel sottobosco cova ancora una fiamma in cui spontaneità e attitudine si rivelano sporadicamente proponendo nuovi nomi, destinati a rimanere appannaggio di pochi ma che mantengono acceso il fuoco. Sono usciti tantissimi libri che ricordano e dissertano di questo ambito.
Recentemente GoodFellas Edizioni ha pubblicato un librone di oltre 500 pagine, “Virus. Il punk è rumore”, in cui Marco Teatro e Giacomo Spazio raccolgono un’incredibile mole di materiale prodotta dal centro sociale Virus di Milano durante la sua attività, dal 1982 al 1989: volantini, locandine, fogli, fanzine, ritagli di giornale.
L’aspetto più interessante e affine allo spirito originario è che non ci sono analisi sociologica, approfondimenti o pareri personali ma solo ciò che è stato realizzato, nudo e crudo, una foto in bianco ma soprattutto nero di ciò che è stato in quegli anni con tutte le ingenuità, l’approssimazione, la freschezza, l’urgenza, l’irruenza, la cattiveria, la disperazione l’ironia, la rabbia di quei tempi. E’ uno dei testi più interessanti in tal senso, che si discosta da quell’infausta modalità ormai consolidata di ricordi dei vari protagonisti (soprattutto americani) in cui si evidenziano solo gli aspetti spettacolari (risse, scontri con la polizia, droghe e fatti incresciosi e sensazionalistici), lasciando l’aspetto e lo spessore culturale in secondo piano (o addirittura non menzionandolo minimamente).
Personalmente ho frequentato spesso il “Virus” e la scena hardcore (sono passati alla “storia” i concerti che organizzavamo a Piacenza all’Osteria di Sacc di via Taverna – ora Chez art – la domenica pomeriggio con i migliori gruppi italiani, proprio per permettere la partecipazione di appassionati quasi tutti minorenni e quindi senza patente, che arrivavano da mezza Italia in treno), suonandoci anche nel 1982 con i “miei” Chelsea Hotel in una tre giorni che raccolse tutti i gruppi italiani, chiamata “Offensiva di primavera”.
Tempi passati e vissuti al 100% e che è giusto cristallizzare nell’epoca in cui avevano un senso ben preciso e il cui revival è tutt’altra cosa.
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